Cos’è la
solitudine? In fondo, potrebbe essere considerata come qualcosa di costruttivo,
di formativo. Momenti di profonda conoscenza di sé. Possibilità di autoanalisi.
La solitudine come
percorso di crescita. Qualcosa di metafisico. Di ascetico. Di…
Quante
stupidaggini. Pensò Bianca. Quante stupidaggini per dire a se stessa che non ci
sono alternative. Edulcorando il tutto, addolcendolo come quando si dà una
medicina ai bambini, mascherandola ben bene.
Ma Bianca era
stanca delle maschere. Maschere che aveva visto, vissuto, respirato, annusato
tutta la vita.
Sospirava, per non
piangere, davanti alla tazzina vuota, con il bordo sporco di caffè e quella
piccola incrinatura che c’era sempre stata, fin dal momento dell’acquisto. Ma
lei l’aveva comprata lo stesso, perché era una tazzina sola, senza piattino:
una povera tazzina esposta sulla bancarella di un panciuto signore indiano che
si dondolava incessantemente, toccandosi la barba.
“Compra compra,
bella signora…” le aveva detto.
E lei gli aveva
sorriso, fermandosi davanti alla bancarella coperta da un lenzuolo ricamato.
Sopra c’erano tazzine da caffè, da tè, antichi narghilè, vassoi tondi in metallo
intarsiato e altri rettangolari in legno di teak. E un susseguirsi incredibile
di bigiotteria di ogni forma e colore possibile. Ma Bianca non amava i
gioielli: preferiva le tazze da caffè e da tè.
La tazzina da caffè
incrinata era in mezzo a una teiera di porcellana inglese e a un narghilè di
peltro: evidentemente, era una povera tazzina senza importanza, messa a caso in
un posto a caso.
“Capita spesso,
nella vita, di essere persone messe a caso in posti a caso…” pensò Bianca.
E così, comprò
quella tazzina incrinata, con due roselline dipinte. E anche quelle erano lì un
po’ a caso: dipinte senza troppa cura, con petali che sembravano macchie rosa
schizzate via da un pennello. Tutto un caso, insomma. O un caos.
L’incrinatura era
la vera parte bella della tazzina, perché quella non era nata a caso:
sicuramente qualcosa o qualcuno l’aveva provocata. Un’incrinatura della vita,
voluta dalla vita.
Anche Bianca era
incrinata. E non era un caso. Era il destino e il destino pianifica, sa,
agisce.
Il destino aveva
deciso che Bianca fosse come la tazzina di caffè, esposta tra la teiera inglese
e il narghilè: una piccola cosa incrinata e sofferente tra persone più
incombenti e forti.
Si era sposata a
vent’anni, Bianca. E da allora aveva provato a vivere in mezzo alle teiere
panciute e incombenti, ma non c’era riuscita.
“Tu devi fare
sempre ciò che ti dico io!” le diceva il marito, ripetendo il suo mantra
quotidiano “Se fai come dico io, non ci sono problemi. Se non mi rispetti, invece
avrai problemi!”
Anche i suoi
genitori non l’avevano trattata meglio: per loro, era sempre stata una sciocca
ragazza, una fuori dalle righe, una che non avrebbe mai potuto combinare nulla
di buono nella vita.
E amiche no, non
poteva averne, perché “fanno perdere tempo in chiacchiere”.
Anno dopo anno, la
sua vita si era consolidata in un ripetersi di azioni meccaniche, quasi
inconsapevoli, dettate da altri. Cucinava, lavava, stirava. Questo era e questo
doveva bastarle.
All’inizio del
matrimonio, si era permessa di dire un
unico “no”: non voleva figli. Perché sentiva dentro di sé la necessità di
crescere ancora, di trovare una strada tutta sua: c’era in lei quella bambina
che ancora protestava e chiedeva attenzione.
Ma lo schiaffo del
marito aveva troncato quel “no” sul nascere. Lei avrebbe dovuto partorire dei
figli, volente o nolente.
“Le donne vengono
al mondo solo per fare figli! Non te l’ha detto tua madre? Servite a quello e a
nient’altro!” e il marito aveva enunciato la sentenza.
Bianca partorì il
suo primo figlio maschio all’età di ventitré anni. Poi il secondo figlio
maschio all’età di venticinque anni. E la femmina all’età di trenta.
“Ho cinquant’anni.
Oggi compio cinquant’anni. Sono vecchia…” pensò Bianca guardano la sua tazzina
incrinata.
Ormai, i tre figli
vivevano tutti fuori casa. Il padre aveva acquistato tre monolocali, dicendo
che avrebbero dovuto affrontare la vita da soli. Ma in realtà, chi affrontava
davvero la vita da sola era la figlia, che lavorava come hostess in una
compagnia di volo internazionale.
I due maschi invece
erano impiegati alla contabilità, nell’azienda di famiglia. Un’azienda che
produceva da cent’anni mobili in legno massello: ingombranti, pesanti, rifiniti
all’eccesso, tirati a lucido con strati di coppale. La rappresentazione
simbolica di suo marito e di quella famiglia di mobilieri. Tutti incollati al
passato.
“Vattene… vai a
vivere lontano da qui…” era il consiglio che lei aveva dato alla figlia “devi costruire la tua vita altrove. Sii libera. Sii
te stessa. Cerca la tua strada. Devi essere come un’aquila che vola libera,
consapevole della vista acuta e della potenza del battito d’ali. Non farti
mettere in gabbia. Mai.”
Bianca aveva sempre
adorato il concetto di “libertà”.
“Che differenza c’è
tra libertà e solitudine? Enorme. Mia figlia è libera, mentre io sono una donna
sola. Ecco la differenza…” pensava Bianca, riflettendo sui suoi cinquant’anni “Vivere
con un uomo che non ti ama è come vivere con un fantasma. E’ come sentirsi morte
dentro.”
Bianca, i suoi
cinquant’anni e la tazzina incrinata. Una strana compagnia.
“Se potessi avere
un regalo per il mio compleanno, un regalo dal destino, un regalo importante…
vorrei che fosse una possibilità. Un
cambiamento. Una vita nuova.”
Bianca sognava.
Bianca scuoteva la testa.
Un andare e venire
di pensieri: ricordi, rimpianti, scelte sbagliate, treni persi, anni
sopravvissuti e non vissuti, momenti imperfetti di una vita imperfetta.
Rughe, crepe,
crateri.
Bianca toccò con
l’indice destro l’incrinatura della tazzina, seguendo pian piano quel percorso
in rilievo.
“L’indiano diceva
che l’incrinatura è segno di vita vissuta e sapienza, come le rughe. L’indiano
la sapeva lunga. Avrebbe detto qualsiasi cosa per farmi comprare questa
tazzina.”
Iniziò a piangere.
E le lacrime quasi le facevano compagnia, scivolando giù calde. Calde come una
carezza sul viso. Calde come un abbraccio. Calde come un sorso di caffè che ti
risveglia.
Sentiva il percorso
delle lacrime, dagli occhi fino al mento. Poi le osservava cadere lente sul
tavolo. Silenziose, come tutte le lacrime del mondo.
“Il silenzio delle
lacrime è un segno di rispetto per chi piange. Chi piange non vuole rumore
intorno e le lacrime sanno ascoltare senza dare fastidio.”
Bianca, i suoi
cinquant’anni, la tazzina incrinata. E le lacrime. Ora la strana compagnia
aumentava.
Bianca era immobile
su quella sedia, con la mente vuota e le gambe di piombo.
Osservava, in
assenza di pensiero, tutto quello che aveva sotto gli occhi.
Tazzina, tavolo,
sedie. Il lampadario. La finestra con i vetri appena puliti. Le pareti bianche,
troppo bianche, talmente bianche da non meritare alcuna attenzione.
“Appendiamo un
quadro…” aveva proposto più volte. Ma no, i quadri davano fastidio. Bastavano
gli ingombranti e coppalati mobili dell’azienda di famiglia.
“I quadri non
servono a niente. Stanno lì appesi senza uno scopo, un’utilità!” Per suo marito, l’arte non aveva alcun motivo
di esistere, come mille altre cose della vita.
Bianca tornò a guardare
la tazzina e ricominciò a pensare.
“Dovrei farmi un
caffè. Piove. Fa freddo. C’è il temporale da ore. Sì, mi faccio un caffè.”
Si asciugò le
lacrime. Poi, allungò entrambe le mani e prese la tazzina.
Si alzò dalla
sedia, ma non andò verso la macchina del caffè espresso.
Si avvicinò alla
dispensa e prese della carta da forno: ne strappò un pezzo e avvolse con quello
la sua tazzina incrinata.
Mise la tazzina in
uno zaino, insieme ai suoi documenti, una maglia di lana e un pettine.
“Non mi serve altro!”
disse a voce alta, come se avesse voluto comunicare con qualcuno. O con se
stessa, in modo eclatante e perentorio.
Prese lo zaino, si
infilò le scarpe e uscì di casa, sbattendo la porta con tutta la sua forza.
Ora Bianca era in
strada e respirava l’aria umida a pieni
polmoni.
Pioveva ancora. Il
temporale era finito, ma c’era qualche goccia leggera e silenziosa, come le
lacrime.
Non vedeva più le pareti
bianche: c’erano persone con cappelli e ombrelli colorati.
E un piccolo cane randagio
che abbaiava al mondo. E due bambini che schizzavano acqua da una pozzanghera.
E un semaforo rotto lampeggiante. E delle ragazzine che ridevano vicino alla
vetrina del bar.
E poi. Poi c’era tutto
quel cielo grigio, immensamente grigio, con ribelli e magnifiche strisce color
arancio che promettevano qualcosa di buono.
Bianca strinse a sé
lo zaino, in modo delicato e protettivo, pensando alla tazzina incrinata
avvolta nella carta da forno.
Ricominciare a
vivere con una tazzina, una maglia e un pettine era, probabilmente, la cosa più
assurda del mondo. Una vita in uno zaino, senza sapere cosa fare e dove andare.
“Capita spesso, nella vita, di essere persone
messe a caso, in posti a caso…”
Ripensò a quella
frase che aveva detto a se stessa, qualche anno prima. Forse, era arrivato il
momento di un altro posto a caso: così, seguendo semplicemente l’istinto.
L’importante era non sentire più il peso della solitudine interiore, il senso
di soffocamento dentro una vita non voluta.
Quell’intenso color
arancio ora stava prendendo spazio nel cielo e ogni cosa sulla terra assumeva
una luce più calda e brillante.
“Non sono più sola. Sono libera!” esclamò
Bianca, sorridendo a un panciuto signore indiano, che passava di lì per caso.
Racconto di Barbara Giorgi, 2018, Copyright
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