mercoledì 5 ottobre 2016

PIANETI DIVERSI - Barbara Giorgi

                                                                  camminanelsole.com


Qualche mese fa, ho scritto questo breve racconto, intitolato "PIANETI DIVERSI", ispirandomi al famoso libro "GLI UOMINI VENGONO DA MARTE LE DONNE DA VENERE" di John Gray, ed. Rizzoli (prima pubblicazione del 1992, Harper Collins).

Questo mio racconto prende spunto da quella specie di "mito della caverna" di cui parla il prof. Gray nel suo libro: quel luogo ideale dove si rifugiano gli uomini durante un litigio di coppia. Io ho immaginato un confronto, in chiave ironica, tra una donna e un uomo: una coppia qualsiasi, in un momento qualsiasi (però, il confronto è su un tema importante).

Il racconto "PIANETI DIVERSI" ha vinto il Premio speciale Scarabeus dell'Associazione Liberi Autori di Livorno, A.L.A., 2016.
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PIANETI  DIVERSI  di Barbara Giorgi 

Dopo un’oretta di discussione, in genere accade ciò che il professor John Gray ha ben illustrato nel suo famoso libro, “Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere”: l’uomo si ritira nella sua caverna e non ne esce più.
Probabilmente, quella caverna deve essere un luogo meraviglioso, perché lui scompare lì dentro come uno speleologo. E chi si è visto, si è visto.

"Pretendere che un uomo chiuso nella sua caverna diventi istantaneamente aperto, affettuoso e attento è irrealistico come pretendere che una donna turbata si calmi all'istante" (John Gray)

Infatti. Io non mi calmo all’istante. E neppure dopo due o tre istanti. Io sto fuori da quella caverna e pretendo di parlare dell’accaduto. Perché parlare è necessario, indispensabile e vitale, per chiarire e superare il conflitto, per tornare alla serenità, per lasciarsi alle spalle le rovine della battaglia.
No. Non è esatto dire che vorrei solo parlarne: vorrei proprio analizzare ogni termine, ogni sospiro, ogni alzata di sopracciglio, ogni tono superiore ai settanta decibel di quella discussione, litigata, confronto, sfida a scacchi, scontro tra titani.
Perché sono donna e le donne devono parlare dopo una discussione.
Devono proprio.
Nel senso che noi abbiamo un’intrinseca, innata, geneticamente predefinita necessità di parola. Ci piace proprio tanto parlare, comunicare, esprimere pensieri. A volte adoriamo buttare lì un parola, solo per vedere l’effetto che fa: siamo delle strateghe della comunicazione.
E io me la cavo abbastanza bene.

Mi chiamo Sammy: solo mia madre mi chiama Samantha e quando pronuncia l’acca aspira bene per evidenziare la presenza di quella lettera dell’alfabeto che sta lì, solo per far piacere a lei, alla mamma delle mamme.
Ci ha pensato dei mesi prima di trovare il nome perfetto per me, quello che avrebbe fatto girare i passanti mentre mi richiamava all’ordine, quello che avrebbe scritto sui biglietti di auguri di compleanno e ricamato sul mio grembiulino dell’asilo. Un nome con l’acca.
Ma a me l’acca non dice proprio nulla: anzi, la trovo invadente ed inopportuna dentro il mio nome. Il nome è mio e l’acca non c’entra nulla. Sembra una persona  che si presenta ad una festa, senza avere l’invito. Un’acca non invitata.
Così, mi faccio chiamare Sammy. Più semplice, lineare, senza lettere invadenti.
Pure lui mi chiama Sammy. Quel “lui” che vive con me. Solo che quando litighiamo, abbrevia ulteriormente: dice “Sammmm” stringendo le labbra su quella emme,  che diventa inopportuna come l’acca.
Oltre a lettere inopportune, ho altri aspetti della mia vita che sono inopportuni: come il carattere testardo, il vizio di leccarmi le dita quando mangio patatine fritte, la consuetudine di arrivare sempre in ritardo, la totale mancanza di pazienza. Ma del resto, sarebbe troppo difficile cambiare, per cui non ci provo neppure.
E continuo a leccarmi le dita.

Oggi, quel lui che vive con me ha detto “Sammmm” circa tre o quattro volte stringendo più che mai le labbra, inarcando le sopracciglia, spalancando gli occhi. Dritto e in piedi, con il dito indice della mano destra che oscillava nell’aria.
Mi chiedo perché gli uomini debbano necessariamente porre in essere tutta questa mimica teatrale, per rendere incisiva e interessante un’opinione. Forse perché esprimono a gesti ciò che noi donne esprimiamo a parole.
Parole. E torno lì, sulla nostra genetica necessità di parlare.
Comunque.
La discussione è nata per un motivo preciso: un argomento che rimandavamo da mesi, presi da altre mille e un milione di cose.  
In pratica, c’era da decidere chi dovesse decidere per la decisione di avere decisamente un figlio.  
Beh. Finché si scherza, si scherza, ma quando si parla di figli non si scherza più. Non si può scherzare. I figli sono essere umani. Gli ho detto così. E lui mi ha risposto: “Bella scoperta”.
Ma il fatto è che io ho un così alto concetto della maternità, un rispetto così enorme per i bambini, per la loro educazione e crescita, un tale amore per l’umanità tutta e per le future generazioni… che ho deciso di non avere figli.
Non voglio essere madre. Non voglio procreare. Almeno per ora. Non mi sento pronta. E gli ho detto pure questo, mentre lui continuava a tenere le mani sui fianchi.
“Sammmm! Una donna che non vuole essere madre? Ma cosa stai dicendo?” e mi ha guardata come se stesse guardando Jack lo squartatore.
No. Come se stesse guardando Erode.
“Esatto. Non voglio avere figli. Non ho spirito materno. O forse ce l’ho, ma è andato in vacanza. Non mi sento pronta. E comunque devo riflettere bene su questa scelta.” Mi pareva la risposta più adatta e sincera.
“Sammmm. Sei strana, lo sai? Sei strana, cara mia. Una donna che non vuole partorire e crescere dei figli, non è una donna completa, vera, appagata!” e lui ha esordito con una sentenza che non prevedeva repliche.
Per la precisione: la sua sentenza non le prevedeva. Io le prevedevo eccome.
Ho dovuto respirare a pieni polmoni prima di rispondere. Ho ossigenato ben bene tutto il mio sistema cardiocircolatorio, perché sapevo di dover impiegare una valanga di parole, con minimi intervalli e toni alti di voce.
“Io non credo proprio che una donna senza figli sia i-n-c-o-m-p-l-e-t-a-!” e ho continuato in modo deciso  “credo che l’appagamento di una donna possa verificarsi in mille modi diversi e non sei certo tu a definire il mio personalissimo appagamento!”
E quello è stato l’incipit del litigio.
Anzi, l’incipit e l’epilogo. Perché lui ha preso la giacca ed è uscito senza neppure salutare. Come se fosse una novità: fa sempre così, quando litighiamo. Sbatte la porta e se ne va.
Io non capisco se quel “taglio” al confronto sia dovuto alla mancanza di capacità dialettica oppure se sia dovuto al testosterone oppure se sia dovuto alla percezione dell’imminente sconfitta. So solo che esce di casa e che lo rivedo, in genere, dopo due ore.
E quando torna fa lo speleologo: si cambia, indossa la tuta felpata, si sdraia sul divano e fissa pensoso il soffitto. In quel momento, entra nella sua personale caverna per uscirne chissà quando: a volte serve una giornata intera.
Ormai l’ho capito: la caverna è quella dimensione in cui l’uomo si rifugia per rimettere a posto degli stracci di pensieri di diverso colore, forma, spessore. Non ci capisce più nulla e deve cercare un luogo della mente per nascondersi e ritrovare un’idea chiara, netta, precisa. Si mette lì e sistema le sue macerie, per ottenere di nuovo la padronanza del suo parlare, della sua capacità di analisi. Gli manca il quadro d’insieme. Qualcosa lo ha fatto vacillare e lui deve ritrovare stabilità e sicurezza.

Problema.
Io non posso aspettare che lui esca dalla caverna. Per cui, ecco fatto che ogni volta decido di andare a riprenderlo, anche contro la sua volontà. Faccio la squadra di soccorso alpino. Vado e lo salvo da se stesso. Con la forza fisica? No, per carità. Con la mia parola magica e meravigliosa: “Parliamo.”
Ma lui non vuole parlare: è nella caverna e vuole rimanere lì, possibilmente ad incollare gli stracci di pensieri.
Purtroppo, io non ho pazienza. Voglio parlare, pretendo di parlare, sono certa che parlare sia la soluzione di tutto.
“Dobbiamo parlare. Voglio che tu capisca bene la mia posizione, il mio pensiero, il mio stato d’animo. E’ importante che tu comprenda i motivi della mia scelta. Devi ascoltare perché è fondamentale che ci sia condivisione in questo…”
“Sammmm! Zitta per favore. Taci per carità! Non ho voglia di parlare ora. Lasciami in pace.”
Che cosa significa? Che sono insopportabile?
Che vuol dire “lasciami in pace”? Forse che faccio la guerra?
Che significa “lasciami in pace”? Forse che lo costringo a fare qualcosa?
Ecco. Quel “lasciami in pace” io non lo accetto: sento che mi rifiuta, che non mi vuole bene, che non tiene a me, che si sta allontanando sempre più nella sua maledettissima caverna, con i suoi maledettissimi stracci di pensieri.
Ed ecco allora che mi arrivano addosso rabbia e delusione e sembra che manchi il respiro. Sì. Mi sembra di non poter respirare. Dilato le narici per catturare ossigeno e pensare molto velocemente.
Sento che delle orribili parole stanno salendo su per la mia trachea: si stanno arrampicando in un free climbing verso le corde vocali. Le orribili parole vogliono uscire e io non so se riuscirò a fermarle.
“Lasciami in pace? Ma come ti permetti di parlarmi così? Non capisci che dobbiamo risolvere questa questione? Non capisci che non puoi essere egoista e rinchiuderti in te stesso di fronte ad un argomento simile? Ma non hai un minimo di capacità dialettica per affrontarmi? Mi dici di lasciarti in pace? Ma ti rendi conto?”
E poi arriva l’ultima parte del free climbing: “Chiedimi scusa”.
L’ho detta. E’ la frase fatidica. La dico sempre, perché le scuse sono il rimedio di tutti i mali, in una litigata. Sono come l’antinfiammatorio da usare per il mal di testa, il mal di denti, il mal di schiena: l’antinfiammatorio serve un po’ a tutto.
Anche le scuse servono a curare. Solo che lui non chiede mai scusa, perché considera le scuse come un atto di debolezza: lo speleologo non può perdere tempo in debolezze. E’ impegnato in altro.
E niente. Io ripeto “chiedimi scusa” circa venti volte. Ma nella caverna non arriva la mia voce.
Così.
Lui rimane laggiù, in qualche cavità profonda e lontana, al buio, mentre ascolta il suo respiro e il rumore dei suoi pensieri.
Ed io sono qui, combattuta tra il continuare a parlare rabbiosamente da sola e l’inizio di un lungo silenzio denso di menefreghismo.

No. Non sono cattiva. Non sono neppure egoista.
E’ che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere.
Ormai ne sono certa: la Terra non va bene, perché è troppo piena di caverne. Servirebbe un altro pianeta dove poter fare pace. Un pianeta senza caverne.

"Tanto tempo fa, i marziani e le venusiane si incontrarono, si innamorarono e vissero felici insieme perché si rispettavano e accettavano le loro differenze. Poi arrivarono sulla Terra e furono colti da amnesia: si dimenticarono di provenire da pianeti diversi." (John Gray, Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, 1992, ed. 2008 Rizzoli).

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