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Qualche mese fa, ho scritto questo breve racconto, intitolato "PIANETI DIVERSI", ispirandomi al famoso libro "GLI UOMINI VENGONO DA MARTE LE DONNE DA VENERE" di John Gray, ed. Rizzoli (prima pubblicazione del 1992, Harper Collins).
Questo mio racconto prende spunto da quella specie di "mito della caverna" di cui parla il prof. Gray nel suo libro: quel luogo ideale dove si rifugiano gli uomini durante un litigio di coppia. Io ho immaginato un confronto, in chiave ironica, tra una donna e un uomo: una coppia qualsiasi, in un momento qualsiasi (però, il confronto è su un tema importante).
Il racconto "PIANETI DIVERSI" ha vinto il Premio speciale Scarabeus dell'Associazione Liberi Autori di Livorno, A.L.A., 2016.
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PIANETI DIVERSI di Barbara Giorgi
Dopo un’oretta di
discussione, in genere accade ciò che il professor John Gray ha ben illustrato
nel suo famoso libro, “Gli uomini vengono
da Marte le donne da Venere”: l’uomo si ritira nella sua caverna e non ne
esce più.
Probabilmente,
quella caverna deve essere un luogo meraviglioso, perché lui scompare lì dentro
come uno speleologo. E chi si è visto, si è visto.
"Pretendere che un uomo chiuso nella sua caverna diventi istantaneamente aperto, affettuoso e attento è irrealistico come pretendere che una donna turbata si calmi all'istante" (John Gray)
Infatti. Io non mi
calmo all’istante. E neppure dopo due o tre istanti. Io sto fuori da quella
caverna e pretendo di parlare dell’accaduto. Perché parlare è necessario,
indispensabile e vitale, per chiarire e superare il conflitto, per tornare alla
serenità, per lasciarsi alle spalle le rovine della battaglia.
No. Non è esatto
dire che vorrei solo parlarne: vorrei proprio analizzare ogni termine, ogni
sospiro, ogni alzata di sopracciglio, ogni tono superiore ai settanta decibel di
quella discussione, litigata, confronto, sfida a scacchi, scontro tra titani.
Perché sono donna e
le donne devono parlare dopo una discussione.
Devono proprio.
Nel senso che noi
abbiamo un’intrinseca, innata, geneticamente predefinita necessità di parola. Ci
piace proprio tanto parlare, comunicare, esprimere pensieri. A volte adoriamo
buttare lì un parola, solo per vedere l’effetto che fa: siamo delle strateghe
della comunicazione.
E io me la cavo
abbastanza bene.
Mi chiamo Sammy:
solo mia madre mi chiama Samantha e quando pronuncia l’acca aspira bene per
evidenziare la presenza di quella lettera dell’alfabeto che sta lì, solo per
far piacere a lei, alla mamma delle mamme.
Ci ha pensato dei
mesi prima di trovare il nome perfetto per me, quello che avrebbe fatto girare
i passanti mentre mi richiamava all’ordine, quello che avrebbe scritto sui
biglietti di auguri di compleanno e ricamato sul mio grembiulino dell’asilo. Un
nome con l’acca.
Ma a me l’acca non
dice proprio nulla: anzi, la trovo invadente ed inopportuna dentro il mio nome.
Il nome è mio e l’acca non c’entra nulla. Sembra una persona che si presenta ad una festa, senza avere
l’invito. Un’acca non invitata.
Così, mi faccio
chiamare Sammy. Più semplice, lineare, senza lettere invadenti.
Pure lui mi chiama
Sammy. Quel “lui” che vive con me. Solo che quando litighiamo, abbrevia
ulteriormente: dice “Sammmm” stringendo le labbra su quella emme, che diventa inopportuna come l’acca.
Oltre a lettere
inopportune, ho altri aspetti della mia vita che sono inopportuni: come il
carattere testardo, il vizio di leccarmi le dita quando mangio patatine fritte,
la consuetudine di arrivare sempre in ritardo, la totale mancanza di pazienza.
Ma del resto, sarebbe troppo difficile cambiare, per cui non ci provo neppure.
E continuo a
leccarmi le dita.
Oggi, quel lui che
vive con me ha detto “Sammmm” circa tre o quattro volte stringendo più che mai
le labbra, inarcando le sopracciglia, spalancando gli occhi. Dritto e in piedi,
con il dito indice della mano destra che oscillava nell’aria.
Mi chiedo perché
gli uomini debbano necessariamente porre in essere tutta questa mimica teatrale,
per rendere incisiva e interessante un’opinione. Forse perché esprimono a gesti
ciò che noi donne esprimiamo a parole.
Parole. E torno lì,
sulla nostra genetica necessità di parlare.
Comunque.
La discussione è
nata per un motivo preciso: un argomento che rimandavamo da mesi, presi da
altre mille e un milione di cose.
In pratica, c’era
da decidere chi dovesse decidere per la decisione di avere decisamente un
figlio.
Beh. Finché si
scherza, si scherza, ma quando si parla di figli non si scherza più. Non si può
scherzare. I figli sono essere umani. Gli ho detto così. E lui mi ha risposto:
“Bella scoperta”.
Ma il fatto è che
io ho un così alto concetto della maternità, un rispetto così enorme per i
bambini, per la loro educazione e crescita, un tale amore per l’umanità tutta e
per le future generazioni… che ho deciso di non avere figli.
Non voglio essere
madre. Non voglio procreare. Almeno per ora. Non mi sento pronta. E gli ho
detto pure questo, mentre lui continuava a tenere le mani sui fianchi.
“Sammmm! Una donna
che non vuole essere madre? Ma cosa stai dicendo?” e mi ha guardata come se
stesse guardando Jack lo squartatore.
No. Come se stesse
guardando Erode.
“Esatto. Non voglio
avere figli. Non ho spirito materno. O forse ce l’ho, ma è andato in vacanza. Non
mi sento pronta. E comunque devo riflettere bene su questa scelta.” Mi pareva
la risposta più adatta e sincera.
“Sammmm. Sei
strana, lo sai? Sei strana, cara mia. Una donna che non vuole partorire e
crescere dei figli, non è una donna completa, vera, appagata!” e lui ha
esordito con una sentenza che non prevedeva repliche.
Per la precisione:
la sua sentenza non le prevedeva. Io le prevedevo eccome.
Ho dovuto respirare
a pieni polmoni prima di rispondere. Ho ossigenato ben bene tutto il mio
sistema cardiocircolatorio, perché sapevo di dover impiegare una valanga di
parole, con minimi intervalli e toni alti di voce.
“Io non credo
proprio che una donna senza figli sia i-n-c-o-m-p-l-e-t-a-!” e ho continuato in
modo deciso “credo che l’appagamento di
una donna possa verificarsi in mille modi diversi e non sei certo tu a definire
il mio personalissimo appagamento!”
E quello è stato
l’incipit del litigio.
Anzi, l’incipit e
l’epilogo. Perché lui ha preso la giacca ed è uscito senza neppure salutare.
Come se fosse una novità: fa sempre così, quando litighiamo. Sbatte la porta e
se ne va.
Io non capisco se
quel “taglio” al confronto sia dovuto alla mancanza di capacità dialettica
oppure se sia dovuto al testosterone oppure se sia dovuto alla percezione
dell’imminente sconfitta. So solo che esce di casa e che lo rivedo, in genere,
dopo due ore.
E quando torna fa
lo speleologo: si cambia, indossa la tuta felpata, si sdraia sul divano e fissa
pensoso il soffitto. In quel momento, entra nella sua personale caverna per
uscirne chissà quando: a volte serve una giornata intera.
Ormai l’ho capito:
la caverna è quella dimensione in cui l’uomo si rifugia per rimettere a posto degli
stracci di pensieri di diverso colore, forma, spessore. Non ci capisce più
nulla e deve cercare un luogo della mente per nascondersi e ritrovare un’idea
chiara, netta, precisa. Si mette lì e sistema le sue macerie, per ottenere di
nuovo la padronanza del suo parlare, della sua capacità di analisi. Gli manca
il quadro d’insieme. Qualcosa lo ha fatto vacillare e lui deve ritrovare
stabilità e sicurezza.
Problema.
Io non posso aspettare
che lui esca dalla caverna. Per cui, ecco fatto che ogni volta decido di andare
a riprenderlo, anche contro la sua volontà. Faccio la squadra di soccorso
alpino. Vado e lo salvo da se stesso. Con la forza fisica? No, per carità. Con
la mia parola magica e meravigliosa: “Parliamo.”
Ma lui non vuole
parlare: è nella caverna e vuole rimanere lì, possibilmente ad incollare gli
stracci di pensieri.
Purtroppo, io non
ho pazienza. Voglio parlare, pretendo di parlare, sono certa che parlare sia la
soluzione di tutto.
“Dobbiamo parlare. Voglio
che tu capisca bene la mia posizione, il mio pensiero, il mio stato d’animo. E’
importante che tu comprenda i motivi della mia scelta. Devi ascoltare perché è fondamentale
che ci sia condivisione in questo…”
“Sammmm! Zitta per
favore. Taci per carità! Non ho voglia di parlare ora. Lasciami in pace.”
Che cosa significa?
Che sono insopportabile?
Che vuol dire
“lasciami in pace”? Forse che faccio la guerra?
Che significa
“lasciami in pace”? Forse che lo costringo a fare qualcosa?
Ecco. Quel
“lasciami in pace” io non lo accetto: sento che mi rifiuta, che non mi vuole
bene, che non tiene a me, che si sta allontanando sempre più nella sua
maledettissima caverna, con i suoi maledettissimi stracci di pensieri.
Ed ecco allora che
mi arrivano addosso rabbia e delusione e sembra che manchi il respiro. Sì. Mi sembra
di non poter respirare. Dilato le narici per catturare ossigeno e pensare molto
velocemente.
Sento che delle orribili
parole stanno salendo su per la mia trachea: si stanno arrampicando in un free
climbing verso le corde vocali. Le orribili parole vogliono uscire e io non so
se riuscirò a fermarle.
“Lasciami in pace?
Ma come ti permetti di parlarmi così? Non capisci che dobbiamo risolvere questa
questione? Non capisci che non puoi essere egoista e rinchiuderti in te stesso
di fronte ad un argomento simile? Ma non hai un minimo di capacità dialettica
per affrontarmi? Mi dici di lasciarti in pace? Ma ti rendi conto?”
E poi arriva
l’ultima parte del free climbing: “Chiedimi scusa”.
L’ho detta. E’ la
frase fatidica. La dico sempre, perché le scuse sono il rimedio di tutti i
mali, in una litigata. Sono come l’antinfiammatorio da usare per il mal di
testa, il mal di denti, il mal di schiena: l’antinfiammatorio serve un po’ a tutto.
Anche le scuse servono
a curare. Solo che lui non chiede mai scusa, perché considera le scuse come un
atto di debolezza: lo speleologo non può perdere tempo in debolezze. E’
impegnato in altro.
E niente. Io ripeto
“chiedimi scusa” circa venti volte. Ma nella caverna non arriva la mia voce.
Così.
Lui rimane laggiù,
in qualche cavità profonda e lontana, al buio, mentre ascolta il suo respiro e
il rumore dei suoi pensieri.
Ed io sono qui, combattuta
tra il continuare a parlare rabbiosamente da sola e l’inizio di un lungo silenzio
denso di menefreghismo.
No. Non sono
cattiva. Non sono neppure egoista.
E’ che gli uomini
vengono da Marte e le donne da Venere.
Ormai ne sono
certa: la Terra non va bene, perché è troppo piena di caverne. Servirebbe un altro
pianeta dove poter fare pace. Un pianeta senza caverne.
"Tanto tempo fa, i marziani e le venusiane si incontrarono, si innamorarono e vissero felici insieme perché si rispettavano e accettavano le loro differenze. Poi arrivarono sulla Terra e furono colti da amnesia: si dimenticarono di provenire da pianeti diversi." (John Gray, Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, 1992, ed. 2008 Rizzoli).
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